CONOSCERE E CURARE IL CUORE 2024

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Prof. Francesco Prati - Foto concessa dall'Ufficio Stampa

Riceviamo e, volentieri, pubblichiamo il comunicato in oggetto

 

Anche quest’anno, la 41° edizione del congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, dal 29 febbraio al 3 marzo a Fortezza da Basso a Firenze, intende contribuire al dibattito interno alla cardiologia italiana grazie alla discussione di temi di estremo interesse, sia perché fortemente innovativi, sia perché approcci terapeutici spesso risolutivi per i pazienti. 

Quest’anno il fil rouge attraverso il quale sono stati selezionati gli interventi più preziosi, ruota attorno ad alcune parole chiave: tempo, medicina personalizzata, gestione in remoto, obesità e cuore, Linee Guida ESC, temi che disegnano prospettivamente già da ora la cardiologia che sarà.

 

Il tempo è il tema, in cardiologia, perché il cuore è tempo dipendente, perché cuore, con il suo battito, crea il tempo. Sempre più, la ricerca scientifica ha indagato le sottili connessioni che esistono tra il cuore ed il tempo. “Gli effetti dell’abbassamento del colesterolo sull’aterosclerosi sono noti” – commenta Francesco Prati, Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto. “Più recentemente trials randomizzati sull’impiego di inibitori PCSK9 e condotti con tecnica Optical Coherence Tomography (OCT) e NIRS-IVUS  hanno fornito ulteriori spiegazioni, mettendo in risalto la riduzione della componente lipidica, l’ispessimento della capsula fibrosa ed infine la riduzione dell’infiammazione locale in seguito al marcato abbassamento della colesterolemia LDL. Rimane però da chiedersi in quanto tempo questi farmaci sortiscano l’effetto di stabilizzazione dell’aterosclerosi. È un fenomeno che si misura in mesi oppure le variazioni della colesterolemia sono tali da ipotizzare un cambiamento della placca fin dalle prime settimane? Non è chiara la tempistica dell’azione dei farmaci ipolipemizzanti. Uno studio pubblicato recentemente da Schwartz G. et al., come analisi post-hoc dell’Odissey, ha dimostrato che scendere a valori molto bassi di colesterolo LDL nell’immediato (prime settimane dall’inizio della terapia), fa migliorare ulteriormente la prognosi in soggetti con recente Sindrome Coronarica Acuta (SCA). Uno studio recente sull’efficacia clinica della riduzione precoce e transitoria del colesterolo LDL nella SCA si inserisce in questa corrente di pensiero. Come era lecito aspettarsi, i pazienti del gruppo alirocumab che raggiungevano valori iniziali consecutivi di colesterolo LDL al di sotto di 15 mg/dl, avevano valori basali di colesterolo LDL inferiori rispetto ai pazienti dell’intera coorte dello studio. Secondo queste osservazioni preliminari il trattamento aggressivo e precoce dell’ipercolesterolemia in soggetti con SCA si traduce in risultati clinici migliorativi rispetto ad una strategia che prevede un controllo più graduale. Non si può escludere che, ragionando in termini di stabilizzazione della aterosclerosi, la riduzione del colesterolo a livelli bassissimi sia in grado di modificare le placche in modo significativo sin dalle prime settimane, modificando quelle caratteristiche correlate alla vulnerabilità. È anche possibile che l’efficacia dei farmaci si esplichi anche attraverso una marcata e precoce riduzione della componente infiammatoria che sappiamo essere molto più evidente nei soggetti con sindrome coronarica acuta. Queste osservazioni preliminari ed in particolare la tesi che vede nella SCA un grande beneficio dall’abbattimento precoce e transitorio del colesterolo LDL è di grande interesse. Vanno confermate attraverso ulteriori studi clinici di tipo prospettico e idealmente con studi di regressione dell’aterosclerosi condotti precocemente”.

 

Sempre ragionando sulla questione tempo, rivascolarizzazione multivasale immediata nell’infarto: cambio di strategia? La Malattia Coronarica multiVasale (MVD, MultiVessel Disease) è una condizione di frequente riscontro in pazienti con infarto miocardico STEMI (ST-segment Elevation Myocardial Infarction) sottoposti a PCI (Percutaneous Coronary Intervention) primaria del vaso colpevole. Diversi studi hanno dimostrato il beneficio della rivascolarizzazione coronarica completa rispetto al trattamento della sola lesione colpevole nei pazienti con STEMI. Sulla base di tali evidenze le attuali, Linee Guida Europee raccomandano che, in pazienti emodinamicamente stabili con STEMI e MVD, la rivascolarizzazione completa di routine deve essere ottenuta o durante la stessa procedura in concomitanza del trattamento della lesione colpevole (PCI multivasale immediata) o con un successivo intervento entro 45 giorni dalla PCI della lesione colpevole (PCI multivasale differita). Tuttavia, le Linee Guida non esprimono una preferenza per la PCI multivasale immediata versus quella differita. Pertanto, il timing ottimale del trattamento delle lesioni non colpevoli in pazienti con STEMI e stabilità emodinamica è ancora dibattuto ed è stato valutato in recenti studi che hanno mostrato la non inferiorità della PCI multivasale immediata rispetto a quella differita. Evidenze cliniche recenti mostrano che in pazienti con STEMI in condizioni di stabilità emodinamica la rivascolarizzazione completa mediante PCI multivasale immediata rispetto a quella differita è una strategia altrettanto sicura ed efficace, supportandone l’implementazione pratica in pazienti selezionati. La strategia di PCI multivasale immediata nello STEMI potrebbe essere particolarmente utile nei pazienti con malattia coronarica bi-vasale, con un rischio non elevato di sviluppare un danno renale acuto, e con lesioni non colpevoli ragionevolmente semplici, tali da non richiedere una procedura prolungata con l’uso di tecniche complesse e da essere associate ad un elevata probabilità di successo procedurale. In generale, la decisione di effettuare una rivascolarizzazione completa immediata deve essere individualizzata sulla base del rischio clinico del paziente e di considerazioni logistiche.

 

La golden hour nella gestione dello shock: fare tanto, fare in fretta. Lo shock cardiogeno è definito come uno stato di inadeguata perfusione d’organo dovuto primariamente ad una disfunzione di pompa cardiaca. Nonostante i numerosi progressi nella terapia di riperfusione e di supporto al circolo, la mortalità rimane elevata, con un range oscillante dal 25% al 70% in base alle casistiche. I protocolli di valutazione e trattamento per lo shock cardiogeno dovrebbero richiedere un approccio simile a quello utilizzato per l’infarto miocardico con elevazione del tratto ST dove la diagnosi precoce e l’attivazione immediata di una rete di soccorso con tempi rapidi di rivascolarizzazione hanno ridotto considerevolmente la mortalità.  Lo shock cardiogeno, dunque, rappresenta una condizione critica tempo dipendente che necessita di una strategia di pianificazione terapeutica mirata sin dal primo contatto clinico, definendo un breve lasso di tempo come “golden hour” per l’inquadramento e l’iniziale gestione. Difatti, alla stregua del ben più noto “door to balloon”, anche approcci tempestivi di supporto meccanico al circolo (“door to support”) stanno acquisendo evidenze in letteratura. La terapia dello shock cardiogeno si basa su due cardini fondamentali: il trattamento della causa sottostante, ad esempio la rivascolarizzazione miocardica in caso di infarto acuto e la terapia di supporto volta a migliorare la perfusione e l’ossigenazione attraverso l’utilizzo di farmaci vasoattivi e dispositivi di supporto meccanico al circolo. La varietà di presentazione dello shock cardiogeno, la gravità e le potenziali cause, l’assenza di forti evidenze per i trattamenti proposti (es. supporti meccanici) e la necessità di terapie personalizzate rendono il decision-making ancora più complesso e la presenza di un team multidisciplinare essenziale. L’introduzione del modello “hub-and-spoke” ha dimostrato effetti positivi sugli outcome delle cure in un setting “real life”. L’ospedale “hub” è dotato di un team multidisciplinare composto da cardiologo interventista, urgentista, cardiochirurgo e specialista in scompenso avanzato. Gli ospedali “spoke” comprendono i centri dotati di emodinamica senza disponibilità di supporti al circolo avanzati o ospedali non dotati di emodinamica, entrambi referenti al centro “hub”. Il centro hub dovrebbe essere dotato di uno shock team che fornisce adeguate informazioni ai centri spoke riguardo la necessità di escalation dei trattamenti, la necessità di supporto avanzato, cateterismo destro per la scelta del supporto appropriato, gestione perioperatoria e monitoraggio adeguati, eventuale weaning da supporti. L’implementazione di protocolli regionali riguardanti lo shock sia dovuto ad infarto miocardico (AMI: Acute Myocardial Infarction) che scompenso acuto su cronico (ADHF: Acutely Decompensated Heart Failure) è risultata sia attuabile che associata a migliore sopravvivenza.

 

L’emorragia cerebrale nel paziente fibrillante: impieghiamo i Nao senza attendere troppo?

Esiste da tempo un ampio dibattito sulla tempistica ottimale di ripresa della TAO dopo uno stroke ischemico in pazienti con FA, poiché nei primi giorni dopo lo stroke appaiono particolarmente elevati sia il rischio di recidiva di eventi ischemici cerebrali (stimato 1% per giorno nelle prime due settimane) che quello di evoluzione emorragica dell’infarto cerebrale. Le Linee Guida disponibili al riguardo sono basate in gran parte sul consenso di esperti e si basano principalmente sulla valutazione della gravità clinica dello stroke valutata tramite la scala NIHSS (National Institutes of Health Stroke Scale). Solo di recente alcuni trial clinici randomizzati hanno fatto luce sul timing dell’inizio/ripresa dei DOAC in pazienti con FA e stroke ischemico acuto. Il più importante di questi trial è lo studio ELAN che ha arruolato 2.013 pazienti (età media 67 anni) con FA ricoverati per stroke ischemico randomizzandoli in aperto a ricevere ripresa precoce di TAO con DOAC (entro 48 ore dopo stroke minore o moderato, entro 6-7 giorni in stroke maggiore) rispetto ad una ripresa più tardiva (3-4 giorni dopo stroke minore, 6-7 giorni dopo stroke moderato e 12-14 giorni dopo stroke maggiore). L’incidenza dell’endpoint composito di recidiva di stroke ischemico, embolia sistemica, emorragia maggiore extracranica, ICH sintomatica e morte cardiovascolare entro 30 giorni è risultata significativamente più elevata nei pazienti con inizio ritardato della TAO (4.1%) rispetto alla ripresa precoce (2.9%), differenza guidata principalmente dalla riduzione degli eventi embolici cerebrali e periferici. Quasi contemporaneamente allo studio ELAN sono stati condotti altri due importanti trial clinici randomizzati, OPTIMAS e TIMING, che hanno valutato la sicurezza e l’efficacia della terapia anticoagulante precoce dopo stroke, dimostrando una superiorità della strategia precoce rispetto a quella tardiva. La novità dello studio ELAN è stata quella di prevedere una maggiore precocità di ripresa dei DOAC rispetto agli altri studi e di utilizzare metodiche di imaging, più oggettivabili e riproducibili della valutazione clinica, per graduare la gravità dell’ictus.

 

Medicina personalizzata. la risposta ai farmaci antipertensivi è eterogenea? razionale per percorsi personalizzati. L’ipertensione arteriosa rappresenta il più importante fattore di rischio cardiovascolare con una diretta responsabilità su un’ampia quota della mortalità e morbosità cardiovascolare nel mondo. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ipertensione arteriosa nel mondo interessa circa 1.28 miliardi di persone nella fascia di età 30-79 anni, due terzi dei quali in Paesi a basso-medio reddito. Nel 2019 la prevalenza globale dell’ipertensione arteriosa, standardizzata per età, nella fascia di età 30-79 anni era pari al 34% negli uomini e al 32% nelle donne. Questa rilevanza epidemiologica si traduce in un enorme impatto clinico e socioeconomico in ragione del considerevole aumento del rischio di malattie cardio-cerebrovascolari e renali legato agli aumentati livelli pressori. 

L’ipertensione primaria – largamente prevalente rispetto alla secondaria – è una problematica clinica ad eziologia multifattoriale sostenuta da un complesso network di meccanismi nervosi, cardiaci, vascolari, renali e metabolici sotto l’influenza di fattori ambientali e genetici. In ragione della complessità fisiopatologia dell’ipertensione arteriosa appare evidente l’opportunità di utilizzare approcci terapeutici che possono agire simultaneamente sui suoi diversi determinanti fisiopatologici. Le Linee Guida 2023 per la gestione dell’ipertensione arteriosa elaborate dalla European Society of Hypertension (ESH), in piena continuità con le raccomandazioni proposte dall’edizione 2018, raccomandano, infatti, la terapia di combinazione con 2 farmaci antipertensivi, preferibilmente in associazione precostituita, come approccio terapeutico inziale per la generalità dei pazienti ipertesi.  Nel corso degli ultimi anni è stata posta una crescente attenzione alla possibilità di massimizzare la resa terapeutica della terapia antipertensiva cercando di selezionare per ogni paziente una specifica classe di farmaci piuttosto che impostare un trattamento empirico basato sulla scelta casuale di farmaci. Lo studio Precision Hypertension Care (PHYSIC), recentemente pubblicato, ha prodotto alcune interessanti evidenze su questa affascinante tematica. Lo studio, randomizzato, in doppio cieco, a crossover ripetuto, è stato condotto in 280 pazienti, di età compresa tra 40 e 75 anni (età media 64 anni, 46% donne, pressione clinica media 154/89 mmHg) con ipertensione di I grado nei 5 anni precedenti, non trattata o in trattamento con monoterapia ed a basso rischio di eventi cardiovascolari, pazienti per i quali le Linee Guida raccomandano di iniziare il trattamento con una monoterapia. Il disegno dello studio prevedeva l’assegnazione di ogni partecipante a 4 periodi di trattamento con l’ACE-I lisinopril (20 mg/die), l’ARB candesartan (16 mg/die), il CCB amlodipina (10 mg/die) e il diuretico idroclorotiazide (25 mg/die) dopo un periodo di wash-out con placebo della durata di 2 settimane.  I trattamenti sono stati selezionati in modo random per ogni paziente per essere ripetuti per un totale di 7-9 periodi di trattamento separati da un periodo di 1 settimana di wash-out con placebo. Lo studio ha evidenziato significative differenze nella risposta pressoria dei pazienti ai differenti trattamenti. Il beneficio addizionale netto in termini di riduzione della pressione sistolica è stato stimato in 4.4 mmHg. Il riscontro di una sostanziale eterogeneità nella risposta individuale ai di versi trattamenti utilizzati nello studio PHYSIC suggerisce la possibilità di ottenere vantaggi addizionali con una personalizzazione del trattamento ma allo stato attuale delle conoscenze questa evenienza appare ancora piuttosto teorica, soprattutto in ragione delle difficolta nell’operare scelte personalizzate.  Peraltro, una recente analisi post hoc degli studi PROGRESS (Perindopril Protection Against Recurrent Stroke Study) ed ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular Disease-PreterAx and DiamicroN Controlled Evaluation) ha dimostrato che le variazione pressorie osservate nel breve termine prima o e dopo l’inizio della terapia antipertensiva non sono associate con la risposta a lungo termine al trattamento. In linea teorica sarebbe più semplice individuare delle caratteristiche fenotipiche che possano predire una risposta soddisfacente ad un farmaco o ad una combinazione di farmaci. Invero, al di là della modesta sensibilità da tempo nota degli ipertesi di colore al trattamento con ACE-I, la scarsa disponibilità ad oggi di indicatori fenotipici di riposta ad un farmaco rende difficilmente perseguibile questo approccio. I risultati dello studio PHYSIC si configurano come proof-of-concept della possibilità di giungere nel prossimo futuro ad un’accurata personalizzazione del trattamento antipertensivo e rappresentano senza dubbio un interessante stimolo alla ricerca di nuovi biomarker che possano predire accuratamente la risposta pressoria ad uno specifico farmaco antipertensivo. È ipotizzabile che un importante impulso agli studi sull’approccio personalizzato al trattamento dell’ipertensione possa derivare nel prossimo futuro dall’individuazione di nuovi biomarker di ipertensione resistente, dagli studi di genomica dell’ipertensione, dallo sviluppo di modelli matematici e dall’intelligenza artificiale.

 

La famiglia: quando è cruciale estendere le indagini per la salute del cuore. Screening della cardiomiopatia dilatativa nei familiari stretti: a chi, come, quando (e dove). La CardioMiopatia Dilatativa (Dilated CardioMyopathy, DCM) è caratterizzata dalla presenza di dilatazione e disfunzione sistolica ventricolare sinistra in assenza di malattia coronarica, valvulopatie, cardiopatie congenite o alterate condizioni emodinamiche in grado di determinarla. Analogamente all’eziologia, anche la presentazione clinica e la prognosi possono essere estremamente diverse e possono variare da forme con grave scompenso cardiaco, ad aritmie ventricolari e bradi-aritmie, fino a forme pauci o asintomatiche. Una spiegazione di tale fenomeno è riconducibile in parte all’eterogeneità dell’architettura genetica correlata alla DCM. Negli ultimi anni, numerosi geni codificanti per una varietà di strutture cellulari del cardiomiocita sono stati associati allo sviluppo di DCM. Da sottolineare come una predisposizione genetica giochi un ruolo importante anche nel favorire alcune forme tossiche di DCM (alcolica, da chemioterapici) e la stessa cardiomiopatia peripartum. la DCM è considerata familiare se: 1) uno o più parenti di primo o secondo grado hanno DCM; 2) quando vi è un parente di primo grado di qualsiasi età con una diagnosi accertata di DCM colpito da morte cardiaca improvvisa. In presenza di una diagnosi di DCM, le recenti Linee Guida ESC raccomandano lo screening clinico-strumentale di tutti i familiari di I grado. Una storia familiare di DCM rappresenta sicuramente un fattore di rischio per lo sviluppo della malattia in un familiare sottoposto a screening. Tuttavia, in letteratura la sola storia familiare è in grado di riconoscere una piccola porzione dei familiari affetti (34%), mentre molti familiari possono essere identificati solo tramite un attento e sistematico follow-up clinico. Studi di screening comprensivi di ecocardiografia, hanno stimato una prevalenza di DCM del 2.0-4.6% nello screening iniziale di parenti di pazienti affetti da cardiomiopatia dilatativa. Durante il followup seriato, il 10-13% dei familiari sottoposti a screening ha sviluppato un quadro di DCM. In questi studi, la presenza di dilatazione ventricolare sinistra e di ridotti valori di funzione sistolica al basale sono risultati predittori significativi di sviluppo di DCM. In effetti, nei familiari di primo grado sono spesso rilevate lievi anomalie non diagnostiche o potenzialmente riferibili ad altri fattori concomitanti quali attività sportiva, ipertensione arteriosa ed obesità. Tuttavia, secondo le recenti Linee Guida ESC, la presenza di dilatazione isolata del ventricolo sinistro con funzione sistolica preservata o la presenza di una variante patogenetica familiare rappresentano elementi sufficienti per porre la diagnosi di DCM in un familiare di primo grado. In questi soggetti, oltre allo screening iniziale assume grande rilevanza il follow-up clinico-strumentale, dal momento che la penetranza della malattia può essere variabile ed il quadro patologico può presentare una significativa variazione dinamica. L’architettura genetica dei pazienti con DCM è particolarmente complessa e comprende molti geni codificanti proteine coinvolte nella struttura di diverse componenti cellulari. Il risultato dell’analisi genetica può influenzare profondamente la gestione del paziente con DCM in termini prognostici, terapeutici (ad esempio per l’impianto di un defibrillatore in prevenzione primaria) e per l’impatto sulla gestione dei familiari. L’analisi genetica è raccomandata nei familiari di I grado dei pazienti con DCM che presentino una variante patogenetica o verosimilmente patogenetica. Lo screening dei familiari di primo grado dovrebbe essere eseguito presso Unità per lo studio e la cura delle Cardiomiopatie come definite dalle recenti Linee Guida ESC (Cardiomyopathy Units) con esperienza nella valutazione clinico-anamnestica e nell’esecuzione ed interpretazione degli esami di imaging multimodale e dell’analisi genetica. Lo screening dei familiari di pazienti affetti da DCM rappresenta un importante strumento per la diagnosi precoce ed eventualmente il trattamento di altri soggetti affetti da DCM. 

 

A volte, la soluzione è più semplice e a portata di mano: prevenzione della Tromboembolia dopo una frattura: basta l’acido acetilsalicilico?

Il TromboEmbolismo Venoso (VTE) è una seria complicazione che può insorgere durante e dopo il ricovero ospedaliero, particolarmente a seguito di interventi chirurgici in anestesia generale. Particolarmente a rischio sono gli interventi di chirurgia ortopedica maggiore quali la protesi elettiva di ginocchio o d’anca ed il trattamento della frattura di anca. Rimangono incertezze sull’impiego della terapia da adottare per prevenire la trombosi venosa profonda e la temibile embolia polmonare. In questi pazienti, le attuali Linee Guida consigliano ma con un livello di evidenza basso o basso-moderato l’Acido AcetilSalicilico (ASA) come possibile alternativa alla terapia anticoagulante per la profilassi del tromboembolismo venoso di lungo termine dopo un periodo iniziale con farmaci anticoagulanti. I diversi studi randomizzati e le meta-analisi non dimostrano differenze significative nel rischio di VTE quando si confronta ASA con le terapie anticoagulanti. Tuttavia, bisogna considerare che la maggior parte delle raccomandazioni si basano sulla chirurgia ortopedica elettiva e che i trial dopo fratture hanno escluso i pazienti ad alto rischio trombotico. Di conseguenza, l’incidenza complessiva di eventi clinici maggiori (morte ed embolia polmonare) è risultata intorno a 1% con ampi margini di confidenza negli studi di non-inferiorità anche di grandi dimensioni. A conferma dei dati finora raccolti sull’uso di aspirina in questo contesto clinico, nello studio randomizzato Prevention of Clot in Orthopaedic Trauma, l’aspirina (alla dose di 81 mg b.i.d.) ha dimostrato di non essere non-inferiore rispetto a enoxaparina in termini di mortalità e rischio di trombo embolia polmonare.  In conclusione, studi randomizzati e metanalisi hanno mostrato che non vi è una differenza significativa nel rischio di VTE clinicamente rilevante o fatale confrontando aspirina e terapie anticoagulanti dopo chirurgia ortopedica maggiore post-traumatica o elettiva, in particolare nei pazienti a basso rischio trombotico. Differenze significative a favore della terapia anticoagulante consistono unicamente nell’incidenza di trombosi venosa profonda. Alcune Linee Guida indicano l’impiego dell’aspirina come possibile alternativa alla terapia anticoagulante orale e alle eparine a basso peso molecolare considerate come farmaci di prima linea.

 

Sempre più patologie complesse in telemedicina. Il monitoraggio in remoto dello scompenso cardiaco grave. I pazienti con scompenso cardiaco avanzato, a causa dell’instabilità delle condizioni cliniche, hanno bisogno di sorveglianza ravvicinata, per evitare pericolose riacutizzazioni o eventi improvvisi. La tecnologia digitale può essere di grande aiuto in questo, grazie al controllo remoto, reso possibile con l’uso di strumenti indossabili o impiantabili. Questi ultimi sono attualmente generalmente inseriti all’interno dei defibrillatori o dei sistemi di resincronizzazione, o inseribili all’interno del circolo polmonare per il monitoraggio della pressione polmonare. Parametri come l’impedenza toracica, l’attività fisica, la variabilità della frequenza cardiaca, le aritmie atriali e ventricolari, la pressione arteriosa, la saturazione di O2 sono controllabili a distanza. I dati relativi all’effettivo beneficio in termini di eventi evitabili (morte e ospedalizzazioni) non sono definitivi, ma sicuramente dal punto di vista organizzativo il beneficio è evidente, sia dalla parte del paziente che dell’organizzazione dell’assistenza. Quest’ultima, erogata sotto forma di televisita, richiede una rimodulazione del sistema, avvalendosi di personale formato, di una rete ben strutturata, di tecnologie digitali (piattaforme, fascicolo sanitario elettronico) ancora non perfettamente messe a punto. L’evoluzione delle soluzioni offerte dall’Intelligenza Artificiale garantisce un affinamento rapido e progressivo della telemedicina in questo settore. È fondamentale che il paziente sia inserito in una rete che comprenda l’Ospedale per la cura del paziente con SC avanzato, l’Ospedale di prossimità, il medico di medicina generale, con condivisione di un progetto di trattamento comprensivo delle comorbilità. Trattandosi di  scompenso avanzato, la cadenza delle visite periodiche in presenza non può essere stabilita a priori, ma dettata dalle esigenze cliniche del momento. Devono essere previsti riferimenti telefonici per il paziente e non deve esserci frammentazione della cura (scelte terapeutiche, dispositivi, etc). Pertanto, inserire i sistemi di controllo remoto nella pratica clinica standard è impegnativo e richiede modelli e infrastrutture. È necessario prevedere un gruppo di lavoro integrato, comprendente professionisti sanitari (medici, infermieri e tecnici) con ruoli complementari e responsabilità ben definiti, con tempo, spazio e attrezzature dedicati. La transizione verso l’integrazione dell’assistenza tradizionale con la tecnologia digitale è in atto e subirà un’inevitabile accelerazione nei prossimi anni, con l’ausilio delle soluzioni offerte dall’applicazione dell’intelligenza artificiale e con il cambio generazionale del personale sanitario e dei pazienti.

 

Obesità e cuore, curare la prima per intervenire sul secondo: percorsi di cura innovativi.  Ruolo degli agonisti del glp1 nell’obesità e scompenso cardiaco con frazione di eiezione preservata. Il peso dell’insufficienza cardiaca (HF), in particolare quella con frazione d’eiezione preservata, al momento rappresenta la maggioranza di tutti i casi di HF nella comunità e non solo riguardo le persone più anziane.  Inizialmente, si pensava che fosse una malattia che colpiva soggetti in gran parte compromessi da rilassamento miocardico. E poi Walter Paulus ha proposto il concetto di infiammazione che porta all’HFpEF e all’obesità. Ora, la nostra comprensione di HFpEF si è evoluta fino a considerarla una patologia sistemica che porta alla disfunzione in diversi sistemi di organi. Una delle caratteristiche fondamentali che conduce a questa disfunzione è la sovraregolazione del percorso infiammatorio, con un aumento del carico infiammatorio, entrambi causati da obesità. L’obesità è uno dei più importanti fattori di rischio modificabili per lo scompenso cardiaco pEF. Tuttavia, è necessario lavorare molto per comprendere veramente i fattori chiave che determinano l’infiammazione e quali percorsi vengono sovraregolati. Come sappiamo, l’infiammazione è più comunemente identificata dall’aumento dei livelli di C-reattivo Proteina (CRP), che funge da indicatore di aumento dell’infiammazione. Gli agonisti del peptide-1 simile al glucagone (GLP-1), noti anche come agonisti del recettore del GLP-1, incretino-mimetici o analoghi del GLP-1, rappresentano una classe di farmaci usati per trattare il diabete mellito di tipo 2 e, in alcuni casi, l’obesità. GLP-1, in virtù della loro capacità di determinare  dimagrimento e riduzione delle adiposità viscerali e dei depositi di grasso cattivo che esistono nel nostro corpo, hanno un significativo effetto antinfiammatorio.  Ora, se si tratta di un effetto diretto sui percorsi antinfiammatori o se è correlato alla perdita di peso è una questione dibattuta. In ogni caso, nella popolazione di pazienti con HFpEF, la maggioranza è obesa e presenta un’indicazione relativa a diabete o obesità  per l’ uso di agenti dimagranti come GLP-1. Recentemente, il semaglutide è stato approvato da FDA (Food and Drud Administration) ed EMA (European Medicines Agency) come trattamenti farmacologici per l’obesità o possono essere prescritti pazienti in sovrappeso con comorbilità. I risultati finali dello studio “Semaglutide Effects on Cardiovascolare Outcomes in People with Overweight or Obesity” (SELECT) hanno dimostrato che il farmaco antiobesità semaglutide ha prodotto una riduzione consistente di circa il 20% rispetto al placebo sugli endpoint principali degli eventi cardiovascolari nel corso dei circa 3 anni di follow-up, nei pazienti con sovrappeso o obesità e con malattie cardiovascolari, ma non con diabete. Questi dati dimostrano che la perdita di peso può ridurre la morbilità e la mortalità cardiovascolare. Questa è stata descritta come un’ottima notizia per i pazienti che convivono con l’obesità e l’inizio di un’era completamente nuova per i pazienti obesi. Poiché l’epidemia di obesità è fuori controllo, le terapie che migliorano gli esiti cardiovascolari causati dall’obesità sono davvero auspicabili e il semaglutide sembra riuscirci. I risultati dello studio SELECT innescheranno un cambiamento di paradigma per i cardiologi, che ora dovranno prendere in considerazione la possibilità di prescrivere un farmaco dimagrante a molti dei loro pazienti, farmaci che fino ad ora non facevano parte della consueta cassetta degli attrezzi farmacologici per i cardiologi. I risultati incoraggianti per semaglutide nei pazienti con HFpEF aggiungono potenzialmente un’opzione extra necessaria per questi pazienti e forniscono un altro trattamento a monte per i pazienti con segni di questa condizione oltre a un elevato indice di massa corporea. Resta da stabilire il modo in cui questi risultati si tradurranno in punti finali concreti e sarà importante per determinare il ruolo dell’agonismo del GLP-1.

 

Le nuove linee ESC per la gestione delle cardiomiopatie: un percorso guidato a supporto delle decisioni del cardiologo. Le nuove Linee Guida ESC 2023 per la gestione delle cardiomiopatie entrano nell’attività clinica della comunità cardiologica dopo 15 anni di intensa attività di collaborazione scientifica che ha portato alla pubblicazione del position Statement ESC sulla classificazione delle cardiomiopatie, seguito da documenti chiave sulla consulenza genetica e test. Le nuove Linee Guida mantengono conservativamente la definizione morfo-funzionale e la classificazione dei quattro principali tipi di cardiomiopatia, vale a dire Cardiomiopatia Ipertrofica (HCM), Cardiomiopatia Dilatativa (DCM), Cardiomiopatia Restrittiva (RCM) e Cardiomiopatia Aritmogena del Ventricolo Destro (ARVC), ciascuna sotto raggruppati come familiari/non familiari. Inoltre, introducono un nuovo fenotipo, la “cardiomiopatia ventricolare sinistra non dilatata” (NDLVC), originariamente proposta nel 2016 come “cardiomiopatia ipocinetica non dilatata”. Le Linee Guida chiariscono la posizione degli esperti riguardo alla non compattazione del ventricolo sinistro come un tratto dinamico, diverso da individuo a individuo, che può essere presente in cuori fenotipicamente sani, in cardiopatie congenite, cardiomiopatie, disturbi ematologici, soprattutto anemie, malattie renali, ma anche negli atleti, nelle donne in gravidanza e in molte altre condizioni, diverse per cause e patogenesi, che portano ad un rimodellamento trabecolare adattivo, persistente o transitorio e reversibile. Nelle nuove linee guida, l’imaging avanzato e la genetica emergono come contributori chiave all’iter diagnostico della CMP e sono ora considerati essenziali per il percorso diagnostico e terapeutico dei pazienti e delle famiglie con cardiomiopatia.

 

Imaging intracoronarico a supporto dell’intervento  percutaneo alle coronarie: dalle evidenze alle linee guida. Nella medicina moderna, le Linee Guida raccolgono prove per fornire raccomandazioni sull’utilità clinica di un trattamento o di una metodologia specifica, al fine di aiutare i medici e i sistemi sanitari a stabilire il rapporto costo-efficacia e le priorità per un migliore trattamento dei pazienti. Nel 2018, la precedente raccomandazione di Classe IIb per l’uso dell’ICI per guidare la PCI, esplicitata nelle precedenti linee guida di pratica clinica, è stata aggiornata all’indicazione di Classe IIa, nelle Linee guida europee sulla rivascolarizzazione miocardica. Più recentemente le Linee Guida Europee sulla sindrome coronarica acuta hanno aggiornato il livello di evidenza da B ad A, confermando comunque la raccomandazione IIa per la “guida PCI”. La mancanza di una raccomandazione più forte da parte delle ultime Linee Guida europee è stata probabilmente dovuta alla scarsità di dati sulla popolazione europea e su specifici contesti PCI, disponibili al momento della definizione delle raccomandazioni. Questa lacuna nell’evidenza è stata recentemente colmata dalla pubblicazione dei risultati di due studi randomizzati (OCTOBER e ILUMIEN IV) si tratta di trials multicentrici di confronto tra l’impiego di procedure di angioplastica con stent medicato guidate da OCT vs procedure con semplice guida angiografica. Nello studio OCTOBER, disegnato per verificare la superiorità dell’impiego dell’OCT in procedure  complesse in punti di biforcazione, l’enpoint principale dello studio (composite of morte, morte cardiaca, infarto miocardico (target) o necessità di ripetere l’angioplastica) era significativamente più basso nel gruppo OCT (10.1% versus 14.1%; HR 0.70, 95%CI 0.50-0.98, p=0.035). Nell’ILUMIEN IV, condotto su pazienti con diabete e malattia coronarica complessa il tasso di trombosi dello stent post intervento era significativamente più basso nel gruppo che impiegava l’OCT. Considerando i risultati ottenuti negli studi randomizzati, uno scenario possibile nel prossimo futuro è che una raccomandazione di classe I possa essere fornita solo per contesti specifici e interventi ad alto rischio. L’imaging intracoronarico non solo ha migliorato i risultati dell’intervento coronarico, ma ha anche cambiato radicalmente la nostra comprensione della malattia coronarica aterosclerotica e non aterosclerotica. In contesto acuto, le immagini intracoronariche possono aiutare a identificare la vera lesione responsabile dell’instabilità acuta e la fisiopatologia sottostante. Di conseguenza, le ultime linee guida europee sulla sindrome coronarica acuta, ICI (preferibilmente OCT) sono state raccomandate nei pazienti con lesione colpevole ambigua con un’indicazione di classe IIb. In ambito cronico, l’accumulo di prove fornite dagli studi ICI sta cambiando i paradigmi consolidati nella pratica clinica. Finora, la PCI in un contesto stabile è stata tipicamente eseguita come trattamento focale per lesioni con malattia ostruttiva evidenziata mediante angiografia coronarica invasiva o con limitazione del flusso rilevata mediante misurazione funzionale invasiva. Dopo anni di ricerca clinica e un numero crescente di prove, la domanda è posta: l’uso routinario dell’ICI è fortemente raccomandato per guidare l’intervento coronarico e migliorare i risultati clinici? Da un punto di vista semplice, sembra logico che l’osservazione delle arterie coronarie e degli stent con l’imaging intracoronarico sia più efficiente che fare affidamento su una visione sfocata dall’esterno. Osservando le prove, diventa ancora più chiaro che la guida ICI influisce positivamente sugli esiti dei pazienti sottoposti a intervento coronarico complesso. L’utilizzo dell’ICI durante l’intervento coronarico può non solo verificare la correttezza dell’impianto dello stent, ma anche influenzare gli esiti del paziente migliorando la stratificazione del rischio. Anche se un aggiornamento delle linee guida è ancora incerto, una cosa appare chiara: l’impatto dell’imaging intracoronarico nella cardiologia moderna è appena iniziato.

 

Fonte: Ufficio Stampa

 

 

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